La Cattedrale di San Cataldo, simbolo della rinascita di Taranto.

di Augusto Ressa

Il 927 d. C. segnò un tragico passaggio della storia di Taranto. Il mare questa volta le fu nemico, consentendo alle navi saracene di sbarcare lungo le sue coste per conquistarla e saccheggiarla. I musulmani trucidarono i suoi abitanti, molti tarantini furono ridotti in schiavitù e deportati in Africa, alcuni di loro riuscirono a fuggire, trovando rifugio sui vicini rilievi murgiani.

La città fu ridotta in rovine, e su quello che era stato uno dei maggiori centri della Magna Grecia, poi città romana con uno dei più fiorenti porti del Mediterraneo, calò il silenzio per i 40 anni successivi.

Fu l’imperatore bizantino Niceforo Foca, nel 967, a volerne la ricostruzione privilegiando per questo la lingua di terra protesa fra i due mari che in seguito diverrà l’Isola, la stessa dove sorgeva l’acropoli della Taranto antica, ancora ricca delle rovine degli edifici monumentali saccheggiati dai musulmani.

Fra i primi edifici ricostruiti fu la cattedrale, luogo simbolico della rinascita di una comunità decimata e dispersa, rassicurante luogo di raccolta dei sopravvissuti che lentamente ripresero possesso della propria città, e della propria storia così bruscamente e tragicamente interrotta.

La cattedrale bizantina fu così riedificata utilizzando il materiale di spoglio selezionato fra le tante rovine presenti all’intorno. Non fu solo una scelta dettata da ragioni pratiche, legata cioè alla consuetudine del passato di reimpiegare i materiali provenienti dalle demolizioni.  L’uso di componenti di templi pagani assunse questa volta anche un forte valore simbolico, esplicito riferimento alla convinta adesione di un popolo al dettato cristiano, manifestazione di professione di fede cattolica e di fiducia nella protezione divina, e segno tangibile della ricostruzione attraverso la ricucitura con un passato che i saraceni non erano stati capaci di cancellare, nonostante la loro furia.

Della cattedrale bizantina oggi si conserva il cosiddetto capocroce, consistente nel transetto e nel vano absidale coperti da volta a botte, che molto probabilmente costituisce la parte cospicua dell’impianto a croce greca originario, impostata su una quota più elevata rispetto alle tre navate della attuale configurazione, facente parte dell’ampliamento di epoca normanna del secolo successivo. Alla fase bizantina risale anche la cripta che ricalca l’impianto del capocroce, a “T”, divisa da coppie di navatelle voltate,  impostate su tozze colonne di spoglio, di differenti materiali e diametri,  rilavorate in ragione delle  dimensioni della nuova struttura. In questo che è il luogo più antico della cattedrale, ma anche della ricostruzione della città dopo quella data nefasta, si conservano le tracce degli affreschi che un tempo ne ricoprivano interamente le pareti. Fra questi, l’unica effigie dipinta del santo patrono, San Cataldo, databile al XIV secolo, sovrapposto ad una edizione di epoca precedente. La dedicazione al Santo di origine irlandese, si deve alla fase normanna della cattedrale, allorquando il vescovo Drogone, nell’XI secolo ampliò la fabbrica e, nel realizzare le fondazioni per le tre navate della nuova aula, rinvenne, nel 1071, la tomba del Santo, le cui spoglie furono in un primo momento collocate in corrispondenza dell’altare principale e, finalmente, nel XVIII secolo, collocate alle spalle dell’altare del cosiddetto Cappellone.

La cattedrale normanna assunse un impianto basilicale con le tre navate orientate in direzione EST – OVEST, impiegando per il colonnato materiale di spoglio rilavorato, come i rocchi di epoca romana, lisci e scanalati, in marmo e in granito, sovrapposti per raggiungere le altezze di imposta degli archi, e sormontati da un repertorio ricchissimo di capitelli di epoca romana, ma anche bizantini e normanni. Del pavimento musivo, realizzato nel 1160 dal vescovo Giraldo restano pochi lacerti, anche se all’epoca del rinvenimento, nel XIX secolo, al di sotto della pavimentazione in marmo, il mosaico appariva più integro al punto che ne fu realizzato un rilievo che ci consente di risalire all’originario disegno. Lo schema compositivo riprendeva quello dei tessuti orientali coevi, con una sequenza di tondi entro i quali sono inserite figure mitologiche e animali allegorici, orientati, nella navata centrale, nella direzione che va dall’ingresso all’area presbiteriale, e nelle navate laterali, nella direzione opposta.  La lezione morale trasmessa dalla lettura del mosaico, aveva il suo punto di partenza nel cosiddetto Volo di Alessandro, nell’interpretazione di gesto di estrema superbia, di inaccettabile sfida ai limiti umani, meritevole di punizione divina.

Lungo i percorsi dei pellegrini che interessarono da Nord a Sud l’intero territorio europeo, a partire dall’alto medioevo, si inseriva anche Taranto quale tappa nella direzione verso Santa Maria di Leuca, ma anche verso la Terra Santa, percorrendo un ramo della via Appia. La Cattedrale di Taranto doveva costituire un punto di riferimento del lungo cammino e il pellegrino devoto sarà stato accolto nei secoli da un luogo di culto in continua mutazione. Gli scavi effettuati fra il 2002 e il 2003, in occasione dell’ultimo restauro del pavimento musivo, hanno infatti messo in luce i resti di una costruzione basilicale precedente alla ricostruzione bizantina, forse databile al VII sec. d. C., orientata nella direzione opposta all’attuale.  La nostra cattedrale annovera pertanto almeno tre fasi della sua storia costruttiva più antica, con impianti e orientamenti differenti.

Alla fase cinquecentesca appartiene l’ampliamento della Cattedrale con la realizzazione del vestibolo che comportò l’abbattimento della facciata normanna. Bisognerà attendere il XVIII secolo perché sia realizzata la nuova facciata barocca, su progetto del celebre architetto leccese, Mauro Manieri. Durante il periodo barocco, dal XVII a tutto il XVIII secolo la cattedrale di Taranto fu oggetto di ampliamenti e di arricchimenti con preziosi apparati decorativi in stucco e in marmo. Di questo fulgido momento creativo, resta ben poco, in ragione di un improvvido intervento di restauro eseguito negli anni ’50, con l’intento di ricondurre il monumento alla facies medievale. Furono così demolite le cappelle laterali, tutti gli apparati barocchi e persino il possente campanile normanno, sostituito da una mediocre torre campanaria, del tutto incongrua e perciò battezzata da allora con fare dispregiativo “il campanile del soprintendente”, con allusione all’architetto Schettini, artefice di tanta espoliazione.

Furono tuttavia, fortunatamente risparmiati alla furia distruttrice due capolavori dell’architettura barocca meridionale: la Cappella del Sacramento e il Cappellone di San Cataldo. Quest’ultimo in particolare costituisce un unicum nel panorama pugliese per l’originale configurazione spaziale, generata dall’unione di due ambienti contigui, uno quadrato e l’altro a pianta ellittica, e per la ricchezza degli apparati decorativi. Il Capitolo Metropolitano si avvalse per realizzare la cappella dedicata al Santo Patrono dell’opera dei più importanti  artisti e artigiani dell’epoca provenienti dalla capitale del regno, dall’architetto Cosimo Fanzago, ai più valenti marmorari delle botteghe napoletane, allo scultore Giuseppe Sammartino che realizzò per Taranto ben otto grandi sculture in marmo bianco, al pittore Paolo De Matteis che affrescò le superfici del tamburo e della volta ogivale. Senza contare gli argentieri che realizzarono i corredi d’altare, i più preziosi dei quali ricoperti da raffinati ricami in corallo rosso siciliano. Anche per il Cappellone furono utilizzati materiali di spoglio, consistenti in marmi antichi di cui la città era ancora ricca, utilizzati dai marmorari per realizzare le tarsie che compongono gli elaborati disegni del pavimento e delle pareti progettati dal Fanzago, con inserti di madreperla e cristalli di rocca, in un insieme di stupefacente bellezza e perfezione esecutiva.

La conservazione di un simile patrimonio fatto di architettura, scultura e pittura, con tutti gli apparati decorativi di arte mobile che racchiude, comporta oggi un continuo, impegnativo intervento di conservazione e restauro, affidato alla Curia Arcivescovile ed alla Soprintendenza con la partecipazione della cittadinanza e dei devoti. Sempre più questo sito denso di storia, assume un ruolo centrale per la città come luogo di culto, ma anche come testimonianza della cultura di un popolo che qui ha saputo esprimere il meglio della propria aspirazione alla bellezza.

La cattedrale, sia chiaro, non è un museo. È  un luogo vivo, che accoglie quotidianamente uomini e donne di ogni età e condizione sociale, anche solo per un momento di raccoglimento per mettere ordine nei pensieri a volte resi confusi in un mondo che continuamente ci sorprende cogliendoci spesso increduli e impreparati. E’ soprattutto un luogo- simbolo di una città che, ora più che mai, è alla ricerca di un proprio destino legato alle proprie radici più profonde, che sono qui solidamente infisse e dalle quali può trarre la linfa per una continua rinascita. Come in quel lontano anno 967.