14 settembre 2019 - San Giovanni Rotondo

Omelia nella celebrazione eucaristica
per il pellegrinaggio diocesano

Cari fratelli e sorelle pellegrini,

cominciamo un altro anno pastorale ancora una volta con questo gesto eloquente del pellegrinaggio perché,  tutti insieme, a partire da me, riscopriamo il valore del viaggio della nostra vita come mendicanti dell’aiuto di Dio e totalmente bisognosi dello Spirito Santo. Compiamo questo cammino in una festa massimamente significativa per la nostra fede, ovvero l’Esaltazione della Santa Croce. E’ una festa che, come la maggior parte delle feste cristiane, nasce da un fatto storico, concreto, e cioè dal ritrovamento, da parte di Sant’Elena, della croce di Nostro Signore in Gerusalemme. Ritrovare la croce, anche per noi oggi diventa prioritario. Essa, seppur così presente nelle nostre vite, è spesso utilizzata con un vuoto gusto estetico, caricata di soli significati culturali oppure è privata della forza del sacrificio di Cristo che muore per i nostri peccati. Oggi siamo chiamati, come sant’Elena, a dissotterrarla da tutto ciò che è mondano, che cerca di nasconderla agli uomini e, invece, ad esaltarla come luogo in cui la morte ha perso, per cedere il passo alla vita; come luogo in cui il peccato, l’odio, l’omicidio dell’innocente hanno ceduto il posto ad un amore infinito, quello di Dio che muore per ciascuno di noi.

La prima lettura descrive una vicenda del popolo d’Israele, pellegrino nel deserto. È un popolo che recalcitra spesso, perennemente lamentoso ed insoddisfatto. La circostanza misteriosa è che la carovana sia infestata da serpenti brucianti che, con i loro morsi letali, uccidono molti degli israeliti. I restanti pregano di essere salvati. Dio comanda a Mosè di fabbricarsi un serpente di rame e di metterlo in cima ad un bastone. Gli israeliti, morsi dai serpenti che avessero guardato verso questo serpente di rame issato da Mosè, sarebbero immediatamente guariti.

 

Nel Vangelo, nel colloquio con Nicodemo, Gesù riprende questo episodio biblico, sovrapponendolo in filigrana alla propria vocazione. È chiaro che egli parli della necessità del suo innalzamento sulla croce. Non si può capire nulla del Figlio di Dio, del Nazareno, se non riferito al mistero della sua Passione, Morte e Risurrezione. Anche noi dobbiamo guardare la croce, segno dell’infinito amore di Cristo, dobbiamo adorarla e fissarla perché è la fonte della nostra salvezza. Una mia amica brasiliana, affetta da un cancro generalizzato, mentre vedeva che stava lasciando definitivamente suo marito, la sua famiglia, i suoi amici, ha visto la croce del mio rosario e l’ ha voluta baciare ed ha detto: “querida”, cara croce. In quell’abisso di amore ha visto la sua salvezza, il Signore Gesù, che aveva imparato a riconoscere in tutta la sua vita di comunità. Nel Pellegrinaggio diocesano che abbiamo fatto lo scorso luglio in Terra Santa, abbiamo toccato il luogo dove è stata piantata la croce, un buco profondo in cui era racchiuso tutto il male e il dolore del mondo. Gesù è entrato in questo dolore e ha vinto il male con la sua obbedienza e il suo amore e si è fatto vicino a tutti coloro che muoiono e che soffrono. Poi abbiamo anche toccato e baciato il luogo in cui Cristo è risorto e siamo rimasti attoniti nel cenacolo, dove Gesù si è mostrato risorto agli Apostoli e la nostra speranza si è rinvigorita. Non vi è rinascita dall’alto se non si vive il mistero del Figlio incarnato che si lascia piantare nel basso della terra per essere innalzato verso l’alto portando verso il Padre l’umanità intera.

Oggi ci ritroviamo qui per purificare il nostro sguardo e per rivolgerlo verso la croce di Cristo, per ottenere guarigione e per ritrovare, nel nostro senso di appartenenza, le ragioni di Dio e non quelle del mondo, ovvero le ragioni di colui che abbassa il superbo e innalza l’umile, che muta le lacrime del dolore in quelle della gioia, che si serve di ciò che è infimo per confondere i sapienti, che ha trasformato per sempre il patibolo della morte in trono di gloria, che ha illuminato con la sua risurrezione la sua tomba tenebrosa e la tomba di ciascuno di noi. Viva la croce di Cristo che ha trasfigurato tutte le nostre croci! «Ti adoriamo Cristo e ti benediciamo: perché con la tua santa croce hai redento il mondo!».

Con questo spirito, iniziamo il nuovo anno continuando su quelle che sono le nostre priorità pastorali, che devono sempre più radicarci nel Vangelo e nella Chiesa guidata oggi dal nostro amato papa Francesco. Quindi il primo punto del nostro cammino pastorale di quest’anno lo sintetizziamo così:

 

Il risorto ci precede

La risurrezione di Gesù è il fatto primario per la vita della Chiesa; è l’esperienza di Cristo, Risorto e nostro contemporaneo, vivo, vero, presente ed operante in mezzo a noi. Come il discepolo amato, in quell’alba sul lago di Tiberiade, con le reti colme di pesci e il cuore che scoppia dalla gioia, siamo chiamati a riconoscere, sulla riva del giorno nuovo, non un fantasma o un ricordo vagamente storico e ideale di Gesù, ma ad esclamare quotidianamente con forza e convinzione: «è il Signore, è proprio lui!». Il riconoscimento costante del Signore nella vita delle nostre comunità è l’affermazione che ogni miracolo di pesca abbondante viene da Lui, è il richiamo a calare le reti nella posizione che Lui ci indica; egli, infatti,  ci aspetta e ci precede.

Lì dove precedere non vuol dire soltanto arrivare prima, andare avanti, ma essere all’inizio. Egli è all’inizio prima ancora delle nostre azioni giuste o sbagliate; il suo amore per noi viene prima di ogni cosa;  noi siamo oggetto di questo amore infinitamente gratuito perché egli ci ama nella libertà e nella verità.

 

Così anche noi riprendiamo in questo pellegrinaggio un’icona che ispira e indica il cammino. Si tratta del mandato che il Signore risorto affida alle donne e del processo che ne scaturisce. Papa Francesco ha detto nella Veglia pasquale del 2014:

«Un angelo potente dice loro: “Non abbiate paura” (Mt 28,5) e ordina di andare a portare la notizia ai discepoli: “È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete” (Mt 28,7). “Non temete” e “andate in Galilea”… La Galilea è il luogo della prima chiamata, dove tutto era iniziato! Tornare là, tornare al luogo della prima chiamata. Sulla riva del lago Gesù era passato, mentre i pescatori stavano sistemando le reti. Li aveva chiamati, e loro avevano lasciato tutto e lo avevano seguito (cfr. Mt 4,18-22).

Ritornare in Galilea vuol dire rileggere tutto a partire dalla croce e dalla vittoria; senza paura, “non temete”. Rileggere tutto. La predicazione, i miracoli, la nuova comunità, gli entusiasmi e le defezioni, fino al tradimento.

Rileggere tutto a partire dalla fine, che è un nuovo inizio, da questo supremo atto d’amore.
Anche per ognuno di noi c’è una “Galilea” all’origine del cammino con Gesù. “Andare in Galilea” significa qualcosa di bello, significa per noi riscoprire il nostro Battesimo come sorgente viva, attingere energia nuova alla radice della nostra fede e della nostra esperienza cristiana. Tornare in Galilea significa anzitutto tornare lì, a quel punto incandescente in cui la Grazia di Dio mi ha toccato all’inizio del cammino. È da quella scintilla che posso accendere il fuoco per l’oggi, per ogni giorno, e portare calore e luce ai miei fratelli e alle mie sorelle».

 

San Paolo, nella lettera ai Filippesi (2, 6-11), seconda lettura della Liturgia della Festa odierna, ci presenta un inno che ricopre una importanza fondamentale per la fede cristiana perché, formulato pochi anni dopo la vicenda terrena di Gesù Cristo, prende atto di un avvenimento storico straordinario, inspiegabile per la logica umana, però vero perché avvenuto come era stato annunciato, e davanti a molti testimoni. Il Cristo risorto reca ancora i segni della passione, ma è ormai trasfigurato nella luce della divinità.

Egli, ricevendo da Dio il Nome al di sopra di ogni nome, è collocato al suo stesso livello e riconosciuto come tale dall’assemblea liturgica che lo proclama Signore.

Nella Prefazione al suo libro Gesù di Nazareth, Papa Benedetto XVI afferma: «Cristo non è frutto di elucubrazioni mentali umane; Egli, al di sopra di ogni aspettativa umana, ma nel progetto, nel mistero divino, è vero Uomo ed è vero Dio, e a questo Gesù si inneggia pochi anni dopo la sua Passione e Risurrezione, non alla fine del primo secolo». E papa Francesco ancora ci dice: «La vita cristiana è anzitutto la risposta grata a un Padre generoso. I cristiani che seguono solo dei “doveri” denunciano di non avere una esperienza personale di quel Dio che è “nostro”. Io devo fare questo, questo, questo … Solo doveri. Ma ti manca qualcosa! Qual è il fondamento di questo dovere? Il fondamento di questo dovere è l’amore di Dio Padre, che prima dà, poi comanda. I comandamenti ti liberano dal tuo egoismo e ti liberano perché c’è l’amore di Dio che ti porta avanti».

La nostra vita cambia quando si lascia incontrare dall’umiltà e dalla potenza della croce e della resurrezione. Cristo risorto già nel battesimo raggiunge la nostra persona e, aderendo nel corso della vita a Lui, noi diventiamo noi stessi. Senza di lui, cosa sarebbe la nostra umanità? L’ho detto al funerale dell’ultima vittima di un operaio dell’ex Ilva, Mimmo Massaro. Sua sorella Primula, in una telefonata fatta a me, ha esclamato: «Eccellenza, don Filippo, ho come visto Mimmo, rannicchiato in un angolo; cercava qualcuno che lo venisse a prendere per la mano, poi ho visto una luce: era Gesù; ora è con Gesù». Me lo ha detto con tutto il dolore del mondo, ma con tutta la speranza della grazia di Dio. Senza la vittoria di Cristo, cosa sarebbe di questo giovane strappato dal mondo durante il suo lavoro? Il volto di Cristo lo sostiene, lo perdona e lo abbraccia. E cosa sarebbe dell’altro giovane che abbiamo tutti pianto, Francesco Vaccaro? Cito lui perché ultimo dei tanti bambini e ragazzi deceduti nella nostra città per causa dell’inquinamento. Questa presenza del Risorto ci sostiene non solo nelle battaglie estreme, ma anche nella nostra vita normale. Il Risorto opera un cambiamento in chi lo lascia entrare nella sua vita.

È proprio un cuore nuovo dentro tutte le cose che si fanno, sia lavorando su una gru, sia lottando per la salute, per  l’ambiente e per la giustizia nel mondo del lavoro, sia coltivando la terra, sia lavando faticosamente i piatti o studiando anche quando non ne abbiamo voglia. La sua presenza, pur dentro la fatica, è fonte di gioia e di speranza. Il Risorto ci è vicino e, quando lo guardiamo e lo accogliamo, ci cambia.

La Chiesa: il luogo della vittoria

Ma da soli,  è difficilissimo realizzare tutto questo; c’è bisogno di qualcuno vicino a noi che ci comunichi la presenza di Cristo. C’è bisogno di qualcuno che ci richiami dalla distrazione in cui cadiamo: dalla fragilità, dalla menzogna e dal male. Ci vuole qualcuno che ci renda familiare la presenza di Cristo, che ci educhi a riconoscerla come la pienezza della nostra vita e la nostra salvezza. Cristo risorto ci è vicino e ci richiama alla sua presenza attraverso un luogo che è una realtà fatta di rapporti tra persone. Occorre frequentare il segno della vittoria di Cristo, la comunità concreta in cui si incarna la Chiesa, cioè le nostre parrocchie, le associazioni, i gruppi, i movimenti che accolgono la sua presenza e la mettono al centro della vita. Cristo non ha fondato una filosofia, ma una comunità fatta di dodici pescatori e poi dei suoi discepoli, un corpo concreto di persone semplici e fragili che lo seguivano e che, col tempo e col dono dello Spirito, sono cambiate. E dopo la Risurrezione e la Pentecoste lo hanno annunziato per il mondo intero.

Il risorto opera nella vita di ciascuno, ma è nella Chiesa, sua sposa, che agisce, che tocca, che guarisce, che salva. Fin dall’inizio della sua vicenda storica, come si legge nei vangeli, egli inaugura una fratellanza nuova, secondo la legge dell’amore e il sacrificio del suo corpo e del suo sangue è posto a fonte perenne per la continua edificazione della Chiesa. I sacramenti sono l’esperienza efficace della sua presenza; egli, così, continuamente ci perdona, ci converte, ci nutre… Gesù ha scommesso sulla Chiesa, ci ha riuniti, ci ha resi figli in lui nella Chiesa, e ha affidato  ad essa la testimonianza della sua resurrezione, così come anche alla Chiesa è dato di essere trasparenza di Lui, perché vedendo le nostre opere buone, il mondo creda e dia gloria al Padre (cfr. Mt 5,16). Capiamo bene che è anche il punto più dolente, la sfida più ardua per noi: fare comunità secondo il Vangelo. Ma in tutto ciò il Risorto ci precede e comunica la sua vittoria a ciascuno di noi.

 

La preghiera sacerdotale del Maestro concentra tutte le sue intenzioni sul mistero dell’unità della Chiesa (cfr. Gv 17); essa infatti è il luogo dell’amicizia di Gesù e dei suoi fratelli e sorelle che siamo noi. Cosa più bella, per chi crede, non esiste. Siamo tutti assetati di famiglia, di una casa. La Chiesa è la creatura forse più imperfetta di Dio, ma è il luogo dove Egli continuamente si manifesta e vince. Diventare Chiesa è un passaggio fondamentale e non aggirabile. Mi sento di far riecheggiare le parole di Cipriano che dice: «nessuno può avere Dio per Padre se non si ha la Chiesa per madre!»

In questo secondo punto ci lasceremo guidare dalle icone e dalle immagini che ci ha dato il Vaticano II presentando il mistero della Chiesa come “Corpo di Cristo” e “Popolo di Dio”.

Punto di riflessione e verifica di quest’anno deve essere proprio questo:  l’ amore e la fedeltà alla Chiesa. Non possiamo vivere da forestieri nelle nostre comunità. Dobbiamo chiederci se siano presenti le istanze della Chiesa Universale, se vogliamo bene al papa, al vescovo, se riconosciamo in essi il segno della volontà di Dio, così come dobbiamo avere a cuore le fasce più deboli delle realtà ecclesiali, le comunità che soffrono la povertà, le persone che sono ai margini della nostra stessa comunità. La Chiesa è la nostra famiglia, non è un arcipelago di isole più o meno felici e lontane. Le famiglie non sono perfette, ma rimangono il luogo dell’amore e della crescita e noi vi apparteniamo. La Chiesa è il cenacolo dove il Risorto varca le porte chiuse e ci dona la pace e la gioia. È indispensabile seguire un luogo in cui siamo facilitati a riconoscere Gesù presente. Lo verifico nelle grandi celebrazioni, nella visita agli ammalati, come quando visito la cara Giusy, affetta da Sla. Nella sua casa si riunisce una comunità e lei la edifica facilitando il “sì” di tutti a Cristo.

In quest’anno pastorale vorrei che si riscoprisse anche il valore dell’iniziazione cristiana: cioè come si diventa cristiani e quindi discepoli missionari. È sicuramente un’azione, un’opera che sta continuamente sotto i nostri occhi, eppure ha bisogno di essere rivitalizzata. Nel nostro Meridione d’Italia abbiamo ancora la gioia di avere tanti bambini e ragazzi al catechismo, almeno fino all’esodo post-cresima, ma francamente mi chiedo che cosa sarà di questa ricchezza fra qualche anno, quando toccherà alla nuova generazione di genitori di portare i propri figli in parrocchia.

L’anno scorso ho voluto lanciare la provocazione della “parrocchia della porta accanto”, la rilancio confidando che la creatività pastorale dei miei sacerdoti venga incoraggiata verso iniziative che vadano nella direzione del coinvolgimento della pastorale vicariale, puntando sui giovani. Magari riuscissimo in ogni vicaria a rendere possibile una sorta di oratorio vicariale che supplisca lì dove alcune parrocchie non riescono, per forze e strutture, a far sì che la pastorale giovanile sia la punta delle opere parrocchiali; e ciò vale per la visita agli ammalati e la custodia del creato. Per questo, sabato 28 settembre celebreremo a Taranto la giornata nazionale della “biodiversità” voluta da papa Francesco e dalla Conferenza Episcopale Italiana.

È soprattutto di una cosa che dobbiamo ricordarci quando pensiamo alla Chiesa, quale luogo della vittoria, e cioè che la casa dei cristiani è alimentata dal fuoco, che arde e mai si consuma, dell’Eucarestia. Vi è una fonte che zampilla perennemente ed è quella del Santissimo Sacramento. Nell’Eucarestia è significato eminentemente il nostro essere uno. «Fratelli – ci dice san Paolo – il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane» (1Cor 10,16-17).

 

 Passione per l’annuncio

L’ultimo punto riguarda sempre l’azione missionaria intesa come annuncio, e quest’anno è accompagnato dal termine passione che ha in sé un ventaglio di significati. Il primo: l’annuncio ha in sé la passione di Cristo, nella ricchezza della sua croce e risurrezione, che è tutto ciò che ci muove e ci motiva. In seconda istanza, la passione indica l’ardore missionario. Non ci muovono passioni spente o tristi, ma siamo travolti dal desiderio di annunciare Gesù. C’è un solo scopo di tutto, lo scopo stesso di Gesù: glorificare il nome del Padre.  «Come tu, o Padre, hai mandato me nel mondo, anch’io ho mandato loro nel mondo» (Gv 17,18). E dice San Paolo: «Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come annunceranno se non sono stati inviati? Come sta scritto: Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!» (Rm 10, 14-15). In questo anno pastorale vorrei lanciare uno sguardo alle strutture pastorali, parrocchiali e comunitarie. Ci domandiamo: sono strutture di formazione e di missione in cui incontriamo la fedeltà di Dio? Coinvolgiamo la vita concreta con la sua presenza e siamo lanciati come testimoni nel mondo dialogando con tutti? Le strutture pastorali sono luoghi che riflettono la gioia del Vangelo e la annunciano?

In realtà esse servono se aiutano a fare esperienza del Risorto e ad annunciarlo con passione. La scelta pastorale fondamentale e generativa è dunque quella dell’evangelizzazione. E questa non è un’aggiunta strana alla nostra umanità, ma è la possibilità che essa sia vera e sia pienamente abbracciata in una comunione senza chiusure con le persone che il Signore ci mette accanto.

 

La modalità che Papa Francesco, e prima papa Benedetto XVI, ci indicano è quella dell’ “attrazione”. “La missione di Cristo si è compiuta nell’amore (…) La Chiesa si sente discepola e missionaria di questo amore: missionaria solo in quanto discepola, cioè capace di lasciarsi sempre attrarre con rinnovato stupore da Dio, che ci ha amati e ci ama per primo. La Chiesa non fa proselitismo. Essa si sviluppa piuttosto per ‘attrazione’: come Cristo “attira tutti a sé” con la forza del suo amore, culminato nel sacrificio della croce, così la Chiesa compie la sua missione quando, associata a Cristo, compie ogni sua opera in conformità spirituale e concreta alla carità del suo Signore” (Papa Benedetto XVI – Aparecida 2007). È la missione che si fa a partire dalla testimonianza feriale e gioiosa di una comunità plasmata dalla comunione dello Spirito Santo, dall’Eucaristia, fatta di persone che irradiano nel loro comportamento il volto del Signore e la carità dello Spirito del Risorto. La dimensione della testimonianza è quella che connota da sempre la missione evangelica, ma che oggi viene richiesta come qualificante ogni gesto missionario. Il carattere fondamentale di questa testimonianza, personale e comunitaria, è la gioia, la gioia del Vangelo (Evangelii Gaudium 83). Il prossimo mese di ottobre, quindi, nella nostra Arcidiocesi sarà tutto dedicato alla Missione e il 19 faremo una grande Veglia Missionaria, uniti a papa Francesco.

Dobbiamo quindi chiederci se in ogni luogo in cui viviamo siamo protesi verso la missione della gioia. Le icone bibliche che ci guidano in questo terzo punto e ci insegnano l’ardore missionario sono disseminate negli Atti degli Apostoli.

Ecco perché, spinti da questa passione, non dobbiamo mai tirarci indietro rispetto alle nostre sfide che, nel nostro territorio, rimangono tante, probabilmente sempre le stesse, che sembrano sfiancarci e scoraggiarci per gli esigui risultati, ma la fede ci spinge ad insistere. Sapete bene che mi riferisco alle questioni legate alla salute, all’ambiente, al lavoro, che rimangono sempre sul tavolo dei problemi tarantini mentre gli attori che vi si siedono attorno continuano a cambiare da anni; la Chiesa deve sostenere nella tenacia e nell’amore la nostra terra e il nostro futuro. E chiediamo che anche il nuovo governo del Paese lo faccia, anteponendo il bene della nostra Terra, ferita e abbandonata, agli interessi di partito. E noi, come Chiesa, non staremo a guardare; collaboreremo nelle cose giuste come la difesa della salute, dell’ambiente, della vita dal suo concepimento sino al suo termine naturale, nella creazione di infrastrutture che favoriscano il lavoro giovanile in modo che la maggioranza dei nostri giovani non debba emigrare per trovare lavoro.

Quando dovessero prevalere gli interessi di partito e i giochi di potere dentro e fuori del governo, denunceremo. La fede è annuncio e denuncia sia di fronte alla questione ambientale che di fronte a quella sociale, che alla condizione della famiglia e dei nostri giovani costretti ad emigrare dal Sud. Non taceremo di fronte ad una possibile approvazione della “morte a richiesta” quando istiga al suicidio, come ha anche detto il Cardinale Bassetti, Presidente della CEI e ha aggiunto: “La vita non ce la diamo noi, così non ce la possiamo togliere”. Noi non annunciamo una speranza vacua, ma una luce che serve a cambiare il presente e il futuro, cominciando da noi stessi. Anche le nostre strutture, oltre che le nostre iniziative, devono comunicare la gioia del vangelo e la passione missionaria. E, anche dinanzi ai gravi problemi del nostro territorio, dobbiamo vigilare e lottare in modo che le promesse diventino fatti. È importante che sia una battaglia con tutte le forze positive presenti nella nostra gente. Anche lo Sport è un grande elemento che può aiutare in questo lavoro comune e i prossimi Giochi del Mediterraneo che si terranno a Taranto nel 2026 sono un bel segnale positivo. Come anche è un segno positivo l’inizio a Taranto del Corso di Medicina e Chirurgia dell’Università della Puglia “Aldo Moro”, coinvolgendo la nostra Cittadella della Carità.

 

Cari fratelli e sorelle,

in Padre Pio, la croce è innalzata nella Chiesa come vessillo della salvezza che parla in mezzo alle sofferenze degli uomini; a lui chiediamo di sostenerci in questo cammino. Lo stigmatizzato del Gargano per quasi tutta la sua vita ha reso possibile l’incontro con Gesù, senza allontanarsi da questi luoghi. Ancora oggi il suo esempio luminoso rimane radicato qui, in questo angolo di speranza. Così vogliamo che accada anche per noi, nelle nostre parrocchie o là dove il Signore ci ha collocati, per essere punti-luce di speranza.

Ci affidiamo alla potente intercessione della Madonna della Salute, di San Cataldo nostro patrono, di San Francesco de Geronimo, di Sant’Egidio e di san Pio per questo anno pastorale che oggi cominciamo, affinché sia un anno speciale di grazie abbondanti.