8 settembre 2018

Omelia per la Santa Messa dell’inizio dell’Anno Pastorale

Pellegrinaggio Diocesano San Giovanni Rotondo

Carissimi Fratelli e Sorelle,
grazie ancora una volta per aver risposto a questo invito di vivere l’inizio dell’anno pastorale nel pellegrinaggio di tutta la nostra arcidiocesi per ricordarci le dimensioni fondamentali della chiamata, del cammino, della strada e della meta.

Non capiremo mai l’ambizione di Dio sulla nostra vita, sulla nostra vocazione, fin quando non avremo accettato il suo invito ad uscire, ad alzare lo sguardo, a mettersi in cammino per guardare, come è successo con Abramo oltre i confini della nostra tenda, della nostra sterilità e dalla finitezza dei nostri giorni, per assecondare la folle poesia di contare le stelle. «Poi lo condusse fuori e gli disse: ‘Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle’ e soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza” (Gn 15,5)». È il Signore che ci prende per braccio e ci tira fuori dalla tenda, ci sceglie e ci chiama per realizzare il progetto di un popolo nuovo in mezzo a tutti i popoli della terra. Un popolo di discepoli in cammino. Senza l’uscita non è possibile contemplare il cielo delle promesse di Dio che si compiono sempre su strade misteriose ed inaspettate.
Allora dico con il salmo 83:

Beato chi trova in te [Signore] la sua forza
e decide nel suo cuore il santo viaggio.
Passando per la valle del pianto
la cambia in una sorgente,
anche la prima pioggia
l’ammanta di benedizioni.
Cresce lungo il cammino il suo vigore,
finché compare davanti a Dio in Sion. (Sal 83, 6-8).

Perché nel pellegrinaggio, la nostra meta, che è Dio, illuminandoci e venendoci incontro, trasforma, le nostre difficoltà in benedizioni, le nostre angustie in sorgente! Venire in pellegrinaggio pone nel nostro cuore una domanda concreta di cambiamento. Veniamo come pellegrini e non come turisti. Domandiamo le grazie di cui abbiamo bisogno e domandiamo la felicità perché il Signore cammina con noi e noi siamo il suo popolo. Direbbe un noto pensatore: «Se sei un uomo libero allora sei pronto a metterti in cammino» (H.D. Thoreau). Ed anche questo pellegrinaggio mette in moto quelle intenzioni virtuose per poterci riconoscere liberi da ogni legame sbagliato che ci trattiene nel possesso delle cose, nella sedentarietà, nell’autoreferenzialità.  Sentiamo il bisogno di pace, di perdono, di tornare alla missione originaria di annunciatori del Regno che inizia in mezzo a noi, aiutati dal solo bastone del pellegrino, con una sola tunica (cfr Mt, 10,10) senza bisaccia né altri beni superflui e soprattutto conservando la dimensione precaria del pellegrino, perché tutti abbiamo ricevuto ogni cosa gratuitamente, e nelle nostre comunità non siamo padroni di nulla anzi gratuitamente siamo chiamati a condividere.

In questa ventitreesima Domenica del Tempo Ordinario la Liturgia della Parola si apre con l’espressione «coraggio» pronunciata dal profeta Isaia per tutti coloro che hanno il cuore perso, smarrito, è un chiaro invito alla gioia, gioia che deriva dall’annuncio messianico: il Signore è presente in mezzo a noi e non passa accanto da indifferente ai nostri problemi, alle nostre malattie, ma la sua venuta è guarigione, è salvezza per ciascun uomo. La parola «coraggio» nella Sacra Scrittura segna sempre una svolta, un cambiamento, un nuovo inizio, una preghiera ascoltata. Vogliamo accoglierla in uno cuore spazioso e rinnovato per cominciare l’anno pastorale consapevoli che in compagnia di Dio accadono sempre cose buone. Il profeta ci annuncia che le cose possono essere capovolte, anche quando sono umanamente irreversibili. Dio apra la porta dei nostri sensi, perché facendo esperienza di Lui, i deserti possano essere irrorati da sorgenti nuove. Isaia oggi parla ai cuori smarriti, che hanno dimenticato, che hanno perso, scordato il bene e sono fermi nel deserto dell’odio.

Sì fratelli e sorelle, facciamo l’esperienza tante volte di incontrare cuori inariditi. Quando Isaia parla di terra bruciata sicuramente pensa all’implacabile deserto mediorientale, io ora penso alle cisterne vuote dell’accoglienza e della fraternità che in questi ultimi tempi creano smarrimento e amarezza. Non ci sono più confini su questo pianeta, un messaggino buca da una parte all’altra la Terra, nella frazione di click eppure spesso, passatemi l’espressione, andiamo in arresto cardiaco, perché non respiriamo, l’aria pulita del Vangelo che spalanca il cuore e non lo atrofizza.
In questo cammino ci conduce papa Francesco e perciò oggi come Chiesa diocesana vogliamo insieme manifestare la nostra comunione, obbedienza e fedeltà totale al Santo Padre nel suo cammino rinnovatore della Chiesa secondo lo spirito del Vaticano II.
In questi giorni anche io ho manifestato la volontà di accogliere nell’arcidiocesi di Taranto parte dei migranti ospitati a Rocca Di Papa. Ciò che rimane un semplice gesto di carità per tanti fratelli e sorelle, le cui storie dovrebbero toccarci il cuore, ha scatenato una serie di attacchi violenti verso la mia persona tant’è che da più parti, in primis dal sindaco di Taranto Rinaldo Melucci e poi da tanti altri che ringrazio, mi sono arrivate attestazioni di solidarietà. Sono sereno perché rispondo alla mia coscienza e alla comunione col Santo Padre. Non mi affliggono tante cattiverie e cose false dette sul mio conto, ma sono fonte di tanta amarezza per la scoperta di un mondo carico d’odio, di mancanza di responsabilità, di gente nascosta nella rete, con così poca umanità. D’altronde il primo ad essere bersaglio di tanta violenza dei social network è Papa Francesco e con lui, in questi giorni la Conferenza Episcopale Italiana.
Il Vangelo non ci da margini di interpretazione sul piano dell’amore, non ci sono vie alternative o riduzioni. Il Vangelo nella sua semplicità ed inequivocabile affermazione ci comanda di amare Dio e il prossimo come Do ci ha amato senza distinzione di razza e di appartenenza sociale; omettere ciò vuol dire non amare il Signore.
Però devo dire «coraggio» insieme con il profeta perché Taranto non è quella che è apparsa in quei post dei social, che evidentemente non raccontano la realtà. Non siamo un popolo razzista e cinico, perché nelle nostre numerose difficoltà siamo stati in prima fila, Chiesa, istituzioni e mondo delle associazioni per aiutare i migranti, dando esempio di accoglienza e di generosità. Tanto si fa per i migranti e in questi anni non si sono registrati problemi di ordine pubblico o altri disagi. Sappiamo anche molto bene che non risponde al vero il continuo luogo comune che tra noi ci sia, come Chiesa, interesse per gli stranieri e disinteresse per gli indigenti italiani; per questi infatti la diocesi ha ristrutturato un palazzo nobiliare in pieno centro storico. Palazzo Santacroce, ora “Centro San Cataldo Vescovo”, dove diamo la possibilità di dormire e di mangiare ai senzatetto della città. È un progetto che abbiamo visto crescere insieme di pellegrinaggio in pellegrinaggio, che sosteniamo insieme ed ora è lì a testimonianza dell’amore di Gesù per i più poveri, opera segno del Giubileo della Misericordia, il Giubileo del cuore infinito di Dio.

Fratelli e sorelle, il profeta ci annuncia «coraggio» perché l’arrivo del Signore ci aiuterà a vincere con fiducia la brutta stagione di razzismo e di odio che mai si confà al nostro spirito dei popoli del  Mediterraneo. Impegniamoci perché questa fase nel nostro Paese conosca presto il suo termine per cedere il passo alla generosità e alla pace di cui siamo sempre stati capaci.
La carità deve unirci e mai dividerci, l’amore per i poveri che, come promesso da Gesù negli ultimi giorni della sua vita terrena, saranno sempre con noi, è il segno distintivo della fraternità cristiana che accoglie senza discriminazione i poveri italiani e i poveri migranti.
Specie in questo momento dobbiamo ancora una volta dare prova di unità, mentre la situazione delle problematiche ambientali e del lavoro nella nostra città sembrano essere ad una svolta dopo una stagione di temporeggiamenti e di indecisioni. Continuo a manifestare la mia vicinanza ai lavoratori e alle loro famiglie perché ci sia dignità e sicurezza sul lavoro, difesa della salute e dell’occupazione, senza licenziamenti e mantenendo i diritti acquisiti sia per dipendenti diretti come per quelli dell’indotto. Continua, però, a preoccuparci una crisi lavorativa senza precedenti.  Molti dei nostri giovani sono costretti ad emigrare e così perdiamo un grande capitale umano e sociale prima ancora che economico.

La prima lettura è naturalmente profetica di ciò che abbiamo ascoltato nel Vangelo, dove ogni promessa di Dio diviene un sì nel Cristo (cfr 2Cor 1,19-20). È uno dei tanti miracolo-segno del Signore, accompagnato da una parola potente «effatà», «apriti». Lo sguardo di Gesù rivolto al cielo, e il tocco delle sue dita e dalla sua saliva è invadente. Egli si lascia coinvolgere dalle nostre miserie e ristabilisce l’ordine della creazione deturpata dal peccato. Con questi segni si fa materialmente vicino a noi perché siamo venuti al mondo per essere sua dimora, per ascoltare il suo messaggio di salvezza e proclamare a tutti la nostra fede.
«Effatà» Gesù lo ripete ogni giorno a ciascuno di noi, ci comanda: «non chiuderti», «non isolarti», «vivi la comunione».

Ogni anno in questa circostanza offro tre spunti da sviluppare lungo tutto l’anno pastorale, avrete notato che nella sostanza cerchiamo di illuminare dimensioni fondamentali della nostra fede che non possiamo perdere di vista, circa la nostra identità, il nostro appartenere a Lui e il nostro essere missionari.  Siamo un popolo di discepoli in cammino.
La prima parola la traggo dalla seconda lettura or ora annunciata.

Elezione

Tutto il capitolo 8 della Lettera ai Romani canta la liberazione dell’uomo dalla legge e dal peccato per vivere pienamente la dimensione dei figli di Dio in Gesù Cristo. La gloria è biblicamente la presenza luminosa e vittoriosa di Dio, il suo volto. E la libertà è la condizione di chi, libero dal peccato, ritrova la comunione con Dio. Questi passaggi che si richiamano alla vocazione del credente, alla giustificazione, alla glorificazione, indicano una pienezza di vita che vorrei racchiudere proprio con il termine elezione, che a noi potrebbe suonare esclusivo mentre significa fondamentalmente la forza stessa dell’amore di Dio che non solo ci raccoglie, ma fa di noi creature che vivono in pienezza. All’inizio della nostra vita e della nostra storia c’è una scelta che parte dall’iniziativa di Dio. “Il Signore si è compiaciuto di voi e vi ha scelti, non perché eravate un popolo più numeroso di tutti gli altri popoli […], ma perché il Signore vi ama” (Deut 7, 6-8). All’origine c’è un amore che sceglie e che predilige. Non ci diamo la vita da soli; è questo amore eterno che ci fa essere.  Il Signore dice a Mosè: «Ti ho conosciuto per nome, anzi hai trovato grazia ai miei occhi» (Es 33, 12). Il Signore  sceglie per un compito: «Fa salire questo popolo» (Es 33,12). E poi nella pienezza dei tempi sceglie Maria: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio» (Lc 1,30) e sceglie gli apostoli e poi i discepoli e sceglie noi. E a tutti chiede l’adesione della libertà con un sì che si rinnova di giorno in giorno. Ma questa elezione non è un fatto elitario, antidemocratico? No! Questo è il metodo di Dio: sceglie Abramo, Mosè e poi Maria per darci Gesù, l’Eletto, e quindi sceglie gli apostoli, i discepoli, la Chiesa per giungere a tutti i popoli della terra. Il Signore sceglie alcuni per giungere a tutti, di incontro in incontro. Lo dice chiaramente San Paolo in uno dei primi scritti del Nuovo testamento. «Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da Lui. Il nostro vangelo, infatti non si diffuse tra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito». (1 Ts 1,4-5).
Capite bene che abbiamo bisogno nelle nostre comunità di scoprire questo aspetto. Siamo chiamati a scoprire il grande dono che il Signore ci fa; a scoprire la grandezza della nostra vocazione per portare a tutti la speranza cristiana. Dio ci chiama per nome in un atto immenso di amore e ci da una grande responsabilità. Perché tutta la vita consiste nell’essere voluti, nell’essere amati e nell’amare. Ci dice ancora San Paolo: «In lui ci ha eletti prima della creazione del mondo… avendoci predestinati nel suo amore a essere adottati per mezzo di Gesù Cristo come suoi figli» (Ef 1,4-5).
Noi siamo il suo popolo, che prega, che si nutre della Parola, dell’Eucarestia, della carità fattiva; non cristiani dell’assaggio, dell’usa e getta. L’elezione è fonte di gratitudine, ma anche di una grande umiltà perché senza di Lui siamo niente e da Lui viene la liberazione. Perciò non abbiamo bisogno di alzare i toni, di essere prepotenti come il mondo, ma di prenderci cura dei deboli e dei nostri fratelli e sorelle.

Da Battezzati a discepoli

Se così grande è la nostra vocazione dobbiamo passare da essere semplicemente dei battezzati a cristiani responsabili, cioè discepoli missionari come ci dice papa Francesco nella Evangelii Gaudium. Con il nostro Battesimo è stato scritto il nostro nome nel libro della vita, Gesù è la vita stessa, e mediante il Battesimo compie il miracolo della nostra chiamata alla santità. Questa ulteriore riflessione sulla vocazione di noi battezzati illumina un aspetto fondamentale del nostro essere chiamati, ovvero il discepolato.
Ci dice papa Francesco: «Ricordiamo l’ambito delle «persone battezzate che però non vivono le esigenze del Battesimo», non hanno un’appartenenza cordiale alla Chiesa e non sperimentano più la consolazione della fede. La Chiesa, come madre sempre attenta, si impegna perché essi vivano una conversione che restituisca loro la gioia della fede e il desiderio di impegnarsi con il Vangelo (EG, 14). E il documento della Conferenza di Aparecida dice: “La sfida fondamentale che stiamo affrontando è mostrare la capacità della Chiesa di promuovere e formare discepoli e missionari che rispondano alla vocazione ricevuta e sappiano comunicare, in un effluvio di gratitudine e di gioia, il dono dell’incontro con Gesù Cristo” (dAP 14). Sempre questo documento specifica che essere discepoli di Cristo significa seguirlo rispondendo al fascino del primo incontro: L’evangelista Giovanni ci ha raccontato, con forza icastica, l’impatto che la persona di Gesù produsse nei primi discepoli, Giovanni e Andrea che lo incontrarono. Tutto comincia con la domanda: ‘che cercate?’ (Gv 1, 38). Alla quale fa seguito l’invito a vivere un’esperienza: ‘venite e vedrete’ (Gv 1, 39). Questa narrazione rimarrà nella storia come sintesi unica del metodo cristiano (dAP 244). Si impara ad essere discepoli seguendo la persona di Gesù rimanendone profondamente toccato.
Quindi il discepolo è colui che segue, che ascolta il Signore, che porta la propria croce. «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole  salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,34-35). Così dice il vangelo di Marco e Luca aggiunge: «Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (Lc 14, 27). Non lasciamo cadere tutto il peso di questa parola! Il discepolo segue il Signore con tutta la sua vita e partecipa alla sua gloria: «Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove e io preparo per voi un regno come il Padre mio l’ha preparato per me» (Lc 22, 28-29).
Tutto ciò si alimenta ascoltando assiduamente la sua Parola e meditandola ogni giorno nel cuore. Facendo esperienza del Signore nei sacramenti, particolarmente nell’Eucarestia, e nel rapporto con il nostro prossimo e con la carne di Gesù che sono i poveri e gli ammalati. È questo il cammino che, insieme alla maggioranza dei nostri battezzati, siamo chiamati a percorrere. Lo possiamo sintetizzare così: “dal fascino di Gesù al servizio dei poveri”.

I santi della porta accanto

Nella esortazione apostolica “Gaudete et Exsultate” il Papa parla dei “santi della porta accanto”, di quelli che lottano con “costanza per tirare avanti un giorno dopo l’altro”.
Tutti quanti noi, se ci pensate bene siamo qui perché abbiamo incontrato un santo della porta accanto. Preti, catechisti, madri e padri di famiglie, nonni, amici che ci hanno insegnato ad amare Dio e ad accoglierlo nella nostra vita.
«Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente – scrive il Papa – nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante». È questa la “santità della porta accanto”,  anche quella degli stili femminili di santità che hanno contribuito a riformare la Chiesa e alle tante donne sconosciute o dimenticate che hanno sostenuto e trasformato famiglie e comunità con la forza della loro testimonianza. Questa è la santità di cui al mondo ha bisogno, della quale la Chiesa stessa da sempre ha bisogno. Purtroppo spesso anche nella Chiesa di Dio ci sono cattivi esempi e scandali, ma la Sposa di Cristo va avanti proprio per questi santi silenziosi che oggi vedo in voi fratelli e sorelle.  Vivere il Vangelo in famiglia, insegnare i comandamenti e l’amore di Dio con il proprio esempio, fare il proprio lavoro con responsabilità, aiutare in parrocchia, essere sempre motivo di gioia per i fratelli e mai causa di sofferenza, vuol dire essere santi della porta accanto.
Non illudiamoci però che la santità della porta accanto sia un vissuto banale e non impegnativo. Basti pensare che le situazioni di conflitto più importanti le viviamo in famiglia o proprio sul pianerottolo di casa! Scoprire in quest’anno la santità della porta accanto per noi sarà l’occasione di chiedere a Dio la pacificazione del cuore nei nostri rapporti interpersonali, di costruire oasi di santità nelle nostre comunità parrocchiali che non devono essere lo specchio di altri tipi di aggregazione, di comitive, dove è facile lasciarsi andare alla maldicenza, alle lamentele, al disfattismo e all’immobilismo.
La santità della porta accanto è anche occuparci, in quest’anno in cui si celebra il Sinodo dei Vescovi sui giovani, dei nostri giovani, come sono accolti e sostenuti nelle nostre parrocchie, associazioni e movimenti, aiutati nella ricerca di un lavoro degno e di uno sviluppo integrare della loro responsabilità. In questo nostro pellegrinaggio ho anche la gioia di annunciare che da Roma è giunto il decreto che autorizza a cominciare il processo di beatificazione di due giovani della nostra diocesi: Paola Adamo e Pierangelo Capuzzimati. È una grande gioia per tutti noi. Santità della porta accanto è anche questo e poi continuare ad occuparci del lavoro e dell’ambiente, per rendere belle le nostre città, i paesi ed il nostro territorio. La parrocchia è la palestra della santità della porta accanto. Mi spingo leggermente oltre il pensiero del Santo Padre, con un po’ di ironia che sicuramente mi perdonerete. Ogni parrocchia cerchi di praticare la santità con la parrocchia accanto, ogni prete con il prete accanto, ogni comunità religiosa con la comunità affianco, perché se tante volte avvertiamo un senso di stanchezza e disincanto è perché accanto non scopriamo nostro fratello, nostra sorella, il dono di Dio a ciascuno. Così ci aiuteremo sempre più a vivere in un orizzonte più grande del nostro giardino nel rapporto con il mondo che ci circonda e con la nostra Diocesi.

Vorrei concludere orientando il nostro sguardo alla stella della nostra sequela. A Maria la madre di Gesù. Oggi è il giorno in cui la Chiesa canta la sua Natività. Perché ci soffermiamo su Maria Bambina? Vediamo in Lei quelle parole che vi ho indicato. Ella è la predestinata, l’eletta, che non conosce il peccato e la morte, non per i suoi meriti, ma per quelli smisurati del Figlio suo. Ella si fa precedere dall’amore di Dio, il germoglio che cresce in lei santifica la radice e le fa vivere la pienezza dell’amore. Il suo «sì» la rende mamma di Dio e il suo ascolto paziente, fedele, fiducioso, la rende Madre di ciascuno di noi sotto la croce. Gesù al termine del discepolato di Maria le annuncia che sarà la madre della Chiesa. In ogni nostro pellegrinaggio annuncio la realizzazione di un’opera nata dalla fede del nostro popolo e entro quest’anno nel cuore della città vecchia di Taranto, dopo un accurato restauro, riapriremo al culto il Santuario della Madonna della Salute tanto caro al cuore dei tarantini e di tutta la nostra arcidiocesi. La Madre di Dio è il vanto del nostro popolo, la letizia del nuovo Israele, bussa alla porta di Elisabetta, entra nella casa degli sposi delle nozze di Cana per soccorrerli nella difficoltà,  riempirli di gioia e farci dono del Santo, di Gesù. A lei affido ciascuno di voi sicuri che ci terrà uniti nell’essere discepoli. Essa continua a consigliare a noi servi: «Qualsiasi cosa vi dica [Gesù], fatela» (cfr Gv2)

In ultimo il nostro pensiero va riconoscente a Padre Pio, discepolo esemplare che ha donato tutto ai poveri e ha seguito Cristo Signore. Egli certamente ha vissuto una santità straordinaria, ancora oggi la sua unione così mistica e singolare ci attrae al grande mistero di Dio che ama gli uomini da donare suo figlio sulla croce. Eppure nella sua esistenza ha indicato poche cose per raggiungere la santità: la confessione animata da sincero pentimento, la santa Messa ascoltata con devozione, ricevere la Comunione e la recita quotidiana del Santo Rosario. Evidentemente ciò basta per divenire santi della porta accanto: ascoltiamo san Pio, egli continui ad intercedere per la Chiesa di Taranto.

La Madonna della Salute, San Cataldo nostro patrono i santi tarantini Egidio e Francesco de Geronimo, benedicano il nostro anno pastorale infondendo in noi fiducia e coraggio.
Invito ciascuno di voi a tornare a casa con un cuore nuovo per cominciare questo anno pastorale con rinnovato entusiasmo!

Vi abbraccio e vi benedico. Buon cammino a tutti.