Omelia per la Celebrazione conclusiva della 49a Settimana della Fede

Venerdì 5 marzo 2021

Con questa Celebrazione Eucaristica chiudiamo la 49° Settimana della fede che quest’anno abbiamo voluto celebrare in forma speciale sia in presenza, rispettando le disposizioni sanitarie dovute al Covid, sia in forma telematica, sul canale YouTube della nostra arcidiocesi. L’abbiamo voluta fare, sentito anche il Consiglio Presbiterale, perché costituisce una arcata importante del nostro cammino pastorale guidati dal tema: “Il Buon Samaritano: prendersi cura delle persone ferite e della Casa Comune”.

Attraverso riflessioni e testimonianze vive abbiamo fissatolo sguardo sull’amore di Cristo che “ci spinge al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro” (2Cor 5,14-15). L’amore di Cristo, ci commuove e ci spinge “affinché i viventi non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro”. Le varie testimonianze ci hanno raccontato perché e come “viviamo per un altro”; perché se perdiamo la nostra vita la ritroviamo spinti dall’amore di Cristo morto e risorto. E tutto questo ha fatto i conti con la pandemia, il nostro individualismo, con un sistema economico che uccide quando assolutizza il profitto e quando porta alla devastazione del pianeta, della nostra casa comune come ci ripete papa Francesco. Vogliamo pregare per lui e vogliamo salutarlo nel suo storico viaggio in Iraq, realizzando il sogno che fu di san Giovanni Paolo II.

La Parola di Dio, in questo secondo venerdì di Quaresima, vuole ancora illuminare per ognuno di noi il mistero della passione e della morte del Signore in questo tempo santo. Due sono i quadri, i racconti, offerti alla nostra riflessione. Su un lato del dittico troviamo un brano riguardante l’epopea meravigliosa di uno dei figli di Giacobbe, Giuseppe, venduto per invidia dai suoi stessi fratelli. Sull’altro fronte vi è la parabola cosiddetta dei vignaioli omicidi. È una parabola, potremmo dire, che Gesù dice di sé stesso. Alludendo chiaramente alla sua vicenda terrena, alla sua missione di riavvicinare il cuore di Israele, registra la resistenza e il rifiuto della sua Persona, narra del conseguente scarto che però nei disegni di Dio diviene nuovo e definitivo inizio.

Nel giorno in cui siamo chiamati a meditare maggiormente sulla via della Croce è come se la Chiesa ci chiedesse di guardarci dentro, di scandagliare il cuore per scovare i peccati ancestrali della nostra anima, quelli che ci fanno alzare la mano sul nostro stesso sangue. L’invidia e l’avidità corrompono il cuore dell’uomo, lo degradano fino a non comprendere più la gravità del male, dell’omicidio. Il patriarca Giuseppe è una delle figure veterotestamentarie segno di Gesù. Tradito dai fratelli, sarà salvato da Dio mediante il suo piano provvidenziale che si serve del dono dei sogni e della forza del perdono.

Quando Gesù prende la parola nel Vangelo di Matteo davanti ai capi dei sacerdoti e ai farisei, questi non possono non capire che la parola vigna si riferiva a loro e ad Israele, popolo che continuamente, nella sua storia, è stato esortato dai profeti, a comprendere la cura di Dio per questo campo coltivato e amato. La parabola riecheggia di immagini meravigliose di Isaia e dei salmi. Reticenti all’accoglienza del figlio di Dio, gli uditori si sentono pungere il cuore ma non si convertono, non si ravvedono dalla loro errata convinzione di essere i padroni del popolo di Dio e sentendosi usurpati da Gesù decidono di ucciderlo.

Siamo chiamati a cambiare il nostro cuore ma non basta la nostra buona volontà di volgerci a Dio, dobbiamo accorgerci di essere destinatari di un evento di grazia, la grazia della misericordia e dell’amore. Si tratta di un evento di grazia che stiamo imparando a declinare alla luce della parabola del buon samaritano in questo anno pastorale, racconto evangelico che in questa 49a Settimana della Fede abbiamo ulteriormente approfondito grazie alle riflessioni di papa Francesco nel secondo capitolo della Fratelli tutti e ai qualificati relatori che ancora ringrazio.

Tutti quanti noi siamo stati visitati dalla bontà gratuita di Gesù, specie se siamo caduti su quella strada che da Gerusalemme va verso Gerico. Il Signore si è caricato della nostra vita e ci ha portato nella locanda della Chiesa dove egli perpetua i doni della sua infinita misericordia. Allo stesso modo siamo chiamati a vincere continuamente la tentazione di passare oltre le disgrazie dei fratelli e a fare come lui, così che l’esperienza della comunità si conformi a quell’immagine cara a papa Francesco ovvero di Chiesa-ospedale da campo.

La misericordia di Dio accolta e praticata vince l’odio fratricida, dissolve l’invidia e la brama di potere, perché ci fa prendere atto dei nostri limiti e al contempo ci fa sperimentare l’amore.  Spesso ci auguriamo che la pandemia che stiamo vivendo ci renda persone migliori e ci adoperiamo per questo. Sicuramente, così come è stato detto dai relatori, l’emergenza sanitaria mondiale ha intanto rivelato quello che siamo, quello che abbiamo costruito o distrutto. La paura e il bisogno hanno smascherato tante nostre false sicurezze e ancora una volta, come nel crollo di una nuova Babele, siamo piombati nella confusione. Qui vorrei si stagliasse la forza dell’annuncio cristiano, con tutta la sua potenza, la sua forza, la sua capacità attrattiva. La nostra terra, il nostro tempo, tutti noi abbiamo un unico bisogno: Dio! e questo lo dobbiamo annunciare con convinzione lì dove sembra morta la speranza.

È vero che il dono della salute mediante cure e vaccini è ora impellente ma per noi uomini di fede, uomini e donne di Vangelo, diventa ancora più urgente non solo l’importanza della salute ma l’annunzio della salvezza, che viene da Gesù, unico salvatore del mondo. La pandemia ha rimesso al centro l’incubo degli uomini ovvero la caducità e la morte, esperienze consustanziali a noi ma esorcizzate continuamente dai falsi valori nei quali rischiamo di annegare: l’egemonia tecnologica, il potere delle finanze, l’effimero, le mode. Come se niente potesse destabilizzarci. Invece no. Noi che abbiamo vissuto non un corso di aggiornamento ma una Settimana della Fede, davanti al sepolcro siamo spinti alla follia di annunciare il risorto, altrimenti non saremmo più né luce e né sale per il mondo. Di fronte alla morte, i cristiani si spingono nel giardino della risurrezione, nel cenacolo dell’eucarestia, sulle sponde del lago di Tiberiade per una pesca miracolosa, precedono il Signore nella Galilea dove è avvenuto il primo incontro, proprio perché dinanzi alla morte non si rassegnano, ma anticipano una realtà di salvezza e di cura. «Non temiamo se trema la terra se crollano i monti nel fondo del mare, Dio è per noi rifugio e forza!».

Capite bene quanto sia importante per noi non incrociare le braccia, non vivere un tempo sospeso, ma attuare l’“energica ripresa”. Non è un mio slogan motivante nel momento della difficoltà ma un dovere: se la Chiesa smette di essere faro, chi naviga in acque grosse può schiantarsi. Ecco perché non nascondiamo la luce sotto il moggio ma sul lucerniere. Non dobbiamo inventarci niente, dobbiamo essere coraggiosi come i nostri padri.

Nell’apice della pandemia cadono infatti alcuni anniversari diocesani che sicuramente non potremo celebrare trionfalmente ma che chiamano in causa la nostra responsabilità infondendo in noi la grande fiducia di essere continuamente accompagnati nei secoli e nel mare in tempesta.

La cattedrale compie 950 dalla sua ricostruzione e dal ritrovamento del corpo del nostro amato san Cataldo: quanta storia, quante disgrazie vinte e superate dalla grazia profusa in una terra toccata quasi subito dalla predicazione apostolica, Taranto è una delle prime gemme del cristianesimo nel Sud Italia.

La concattedrale sta vivendo il suo cinquantesimo di costruzione e rimane il segno recente di una Chiesa vivace, sospinta come vela meravigliosa dal rinnovamento del Concilio Vaticano II.

Sono anche venticinque anni che un figlio di Taranto vecchia è elevato agli onori degli altari, Egidio Maria è santo per la chiesa per la Chiesa universale.  Vedete quanta bellezza? E a noi, alla nostra Chiesa cosa chiede lo Spirito?

Di accogliere nuovamente l’invito alla conversione guardando al Signore della vigna crocifisso e risorto. Proseguire il cammino di una Chiesa famiglia, fatta di incontri veri di un cammino sinodale come ci ha detto il Papa, gustare l’appartenenza agli altri e non percorrere il cammino da soli, secondo il pensiero dominante e vuoti di affetti veri, di un amore gratuito e non possessivo a cominciare dalle nostre associazioni, parrocchie e movimenti.

L’ho detto nel messaggio di quaresima: Dobbiamo farci prossimi a tutti, gli uni agli altri. La Chiesa deve attrezzare la sua locanda proprio nel bel mezzo del tragitto di questa pandemia, per permettere l’incontro sulla strada di Gesù, Buon Samaritano, a coloro che incappano nei molti briganti di questa stagione (malattia, povertà, emergenza lavorativa, solitudine, smarrimento, cattiveria, depressione…).

Purtroppo Taranto, oltre alla pandemia, deve combattere più battaglie ma non bisogna scoraggiarsi, anzi riuscire finalmente ad eliminare ogni rischio per la salute dei tarantini e degli operai dello stabilimento siderurgico. Se le indagini epidemiologiche dicono che l’acciaieria immette sulla città sostanze pericolose – e non lo scopriamo ora – è il momento che la politica trovi soluzioni efficaci, globali e definitive.

A noi la missione di non incrociare le braccia, di non perderci né nell’indifferenza né nell’osservazione asettica e nemmeno nel non riconoscere il fratello che soffre come priorità così come fanno gli insensibili e sicuri viandanti della parabola del buon samaritano. L’esperienza dell’annuncio nella carità cristiana è la nostra priorità, la cura dei fratelli e della casa comune è priorità. Questo è il momento opportuno in cui Taranto con il suo territorio e la nostra arcidiocesi è la priorità! Buona ripresa del cammino a tutti: il Signore vi benedica e la Madonna della Salute vi protegga.