I vescovi che ressero la diocesi nella prima metà del Cinquecento poco incisero nella realtà della diocesi, se si eccettua forse l’arcivescovo Giovanni Maria Puderico (1510-1524) che compì in tutta la diocesi una scrupolosa visita pastorale. Il vento di Trento arriverà attraverso l’arcivescovo Marco Antonio Colonna (1560-1568), che partecipò all’ultima fase del Concilio e fu nominato cardinale
nel 1565. Il Colonna lasciò due testimonianze importanti per l’attuazione dei decreti conciliari nella diocesi: il seminario, fondato nel 1568, uno dei primi ad essere eretto nel Mezzogiorno, e la celebrazione di un concilio provinciale (1568) di cui si conservano gli atti.
Seminario e concilio avrebbero dovuto dare, nell’ottica dell’arcivescovo Colonna, una prima grande scossa al torpore della diocesi, immettendola in qualche modo in un movimento che non era solo locale ma italiano ed europeo. Ma il presule che avrebbe cercato in venticinque anni di episcopato di far mettere solide radici ai dettami tridentini fu il napoletano Lelio Brancaccio (1574-1599). Il suo operato si svolse non senza contrasti soprattutto da parte del clero tarantino che più di tutti sperimentò la sua severità, il piglio notarile nelle visite pastorali, l’invito continuo a vivere una vita più consona al proprio stato. Oltre a due approfondite e analitiche visite pastorali, celebrò un sinodo provinciale, cercò di guadagnare al rito latino le comunità albanesi presenti
nel territorio della diocesi, riordinò in gran parte il dissestato patrimonio ecclesiastico, seguì lo sviluppo del giovane seminario diocesano, accolse nuovi Ordini religiosi, soprattutto l’Ordine dei Fatebenefratelli, fece conoscere e apprezzare in diocesi la Compagnia di Gesù invitando alcuni seguaci di s. Ignazio a tenere periodiche missioni, riordinò il clero delle due più importanti cittadine, Grottaglie e Martina Franca, costituite in chiese collegiate, difese le immunità ecclesiastiche dalle pretese laiche e baronali.
Nel secolo successivo si andrà infittendo in tutta la diocesi la rete di confraternite secondo caratteristiche di vita religiosa ed assistenziale, interne ed esterne, abbastanza comuni rispetto alla gran parte delle confraternite del Mezzogiorno.
Il seminario, anche nel Seicento, continuò ad essere un punto di riferimento culturale e formativo della diocesi e il clero in gran parte venne preparato in quell’ambiente. Con l’arrivo dei Gesuiti a Taranto, che sostanziarono la loro presenza con la fondazione nel 1622 di un collegio, l’educazione religiosa e culturale del futuro clero registrò un ulteriore e qualificato passo avanti. Nel collegio di Taranto ebbe, tra gli altri, la sua prima formazione il grande predicatore del Mezzogiorno moderno, san Francesco de Geronimo. Nutrita anche la presenza di altri Ordini religiosi per tutto il Seicento, dislocati, oltre che nella città capodiocesi, a Martina Franca e Grottaglie: i Paolotti, le quattro famiglie francescane, i Carmelitani calzati e scalzi, gli Olivetani, i Celestini e i Domenicani.
Il vescovo teatino Tommaso Caracciolo (1637-1665) rilanciò la vita religiosa attraverso due particolareggiate visite pastorali e un sinodo diocesano, curando in modo particolare il seminario, di cui mise completamente a nuovo la fabbrica, incalzando il clero locale affinché fosse sempre pronto e disponibile alla predicazione e all’assistenza spirituale, istituendo nella cittadina di Grottaglie
una congregazione di preti per la predicazione nei vicini casali. Tredici prelati si erano avvicendati tra il 1560 e il 1703 sulla cattedra tarantina alternandosi spagnoli e italiani, alcuni per breve durata altri per un periodo più che ventennale.
Tutti furono più o meno sensibili e interessati alla riforma dei costumi del clero e del popolo; ce lo testimoniano sinodi, relazioni ad limina, visite pastorali.
Le strutture ecclesiastiche che si erano andate a mano a mano formando nella diocesi tra il XVI e il XVII secolo, rimasero più o meno identiche nel successivo, ma è anche da segnalare la fondazione di altri enti per l’assistenza materiale e spirituale, che potenziarono la già ricca rete di conventi, confraternite e conservatori: un convento di alcantarini, un monastero di cappuccinelle, tre conservatori per fanciulle povere e donne pentite, alcune nuove confraternite ed una congregazione di ecclesiastici fondata nel 1720 per la predicazione nei paesi della diocesi. Una serie di brevi episcopati – Fabrizio De Capua, Celestino Galiani, Casimiro Rossi, Antonino Sersale, Isidoro Sanchez de Luna – non giovò alla vita spirituale complessiva della diocesi soprattutto nelle zone più periferiche.
L’episcopato che più caratterizzò questo secolo fu certamente quello di Giuseppe Capecelatro (1778-1816), durato 38 anni, non tanto e non solo perché furono anni densi di avvenimenti politici, sociali e religiosi, ma per l’impegno pastorale che questo complesso personaggio dedicò alla diocesi di Taranto.
I suoi anni di governo furono costellati da visite pastorali, un progetto di sinodo, preparato nelle sue bozze ma mai celebrato per il precipitare degli avvenimenti politici, centinaia di editti indirizzati al clero, al popolo, alle monache, alle confraternite, lettere pastorali secondo un impianto moderno che poi caratterizzerà il secolo successivo. In questo sforzo di “modernizzazione” chiamò a raccolta tutto il clero della diocesi, che incalzò con editti di carattere disciplinare. Più che la rivoluzione francese in sé e la breve esperienza delle municipalità repubblicane del 1799, fu il successivo decennio napoleonico nel regno di Napoli ad incidere nelle strutture della Chiesa regnicola. Così anche la diocesi di Taranto subì la soppressione degli ordini religiosi con il consequenziale impoverimento delle strutture devozionali, il riallineamento numerico dei preti per numero di abitanti, la costituzione dei cimiteri comunali, l’anagrafe civile, la razionalizzazione
delle parrocchie.
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