9 settembre 2017

Omelia per la Santa Messa dell’inizio dell’Anno Pastorale

Pellegrinaggio Diocesano San Giovanni Rotondo

Carissimi Fratelli e Sorelle,
ci dice il Vangelo di questa domenica: “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”. Noi non siamo solo sue o tre, siamo in molti e lo riconosciamo presente, vivo, in mezzo a noi e lo accogliamo come il nostro Salvatore.
Il nostro saluto filiale a papa Francesco, il saluto e la preghiera per Mons. Castoro e il mio saluto affettuoso ai sacerdoti presenti e a tutti i fedeli che generosamente hanno risposto al mio invito.
Siamo ancora una volta pellegrini, immagine di una Chiesa in movimento, desideriamo, con l’esperienza del cammino, combattere la sedentarietà pastorale per riscoprire la gioia dell’annuncio itinerante, come anche l’esperienza di un unico popolo che segue un solo Signore, popolo di penitenti riconciliati, popolo di uomini e donne, di adulti, di giovani, di ragazzi. Uomini e donne che come chiede papa Francesco, non se ne stanno “comodi e al sicuro sopra un buon divano”, ma sono audaci, coraggiosi, “in un cammino comunitario che ci ha preceduto nei secoli”; guariti nel cuore e nello sguardo dal Redentore e pronti alla sequela.
L’esperienza del pellegrinaggio vuole rimotivare il cuore della nostra comunità uscendo dai nostri soliti ambienti, rinnovando la fatica necessaria dello stare insieme.
È Gesù stesso che nei momenti, anche quelli più esaltanti dell’evangelizzazione dei Dodici, quando addirittura, presi dall’entusiasmo e dalla copiosità dei frutti pastorali non avevano tempo neanche per mangiare, invita a lasciare l’attività e a recarsi in un luogo differente per riposare e ristorarsi all’ascolto del Maestro (cfr. Mc 6.31-32). È Gesù che spinge i suoi amici lontano dalla calca, verso l’altra riva, per manifestarsi camminando sulle acque, quasi a ricapitolare ai suoi che ogni azione ha senso solo a partire dalla fede rinnovata nella presenza del Risorto (cfr Mt 14 22-26).
Il pellegrinaggio poi ci ricorda quel momento in cui Gesù, a faccia dura (cfr. Lc 9,51), cerca il compimento della sua missione verso la Città Santa. Mostrando le spalle ai suoi seguaci, Egli si impone come guida e come esempio, intimando a Pietro di tornare a seguirlo e a non seguire le proprie idee(cfr. Mt 16,23).
Essere pellegrini sempre, amici carissimi, ci riporta all’essenziale, al rendere leggera la bisaccia, a godere dei compagni di viaggio, scambiare una parola con loro, vincere barriere, solitudini, isolamenti.

Non è necessaria chissà quale analisi di professoroni per comprendere come sia complesso il momento storico nel quale ci troviamo a vivere. Basta accendere il proprio smartphone per sorseggiare la precarietà in cui viviamo. Spirano venti di guerra, si fa fatica a comprendere quale sia la giusta ragione anche della carità, dell’accoglienza. L’incertezza si riverbera a tutti i livelli e non è un bene. Il mondo sembra sciogliere qualsiasi punto di riferimento. Anche la Chiesa spesso vive questo fluttuare, questo essere sballottata dalle opinioni personali, bersagliata da aspettative esterne mondane e riduttive, spesso viviamo l’esperienza della timidezza, della mollezza, peggio ancora del sincretismo col mondo che ci rende simili ad agenzie ricreative, ammortizzatori sociali, associazioni di volontariato.
Ho riflettuto quale potesse essere la prima parola guida capace di spazzare l’incertezza e sono a proporvi la parola Vocazione. Ce la indica papa Francesco nella preparazione del Sinodo dei giovani del prossimo anno: “La vita ci chiede concretezza. In questa cultura liquida, ci vuole concretezza, e la concretezza è la vostra vocazione”.

Vocazione
Il Papa, nel documento preparatorio del Sinodo dei Vescovi sui Giovani e il discernimento vocazionale, parla della vocazione riprendendo l’incontro dei primi discepoli con Gesù. “«Fissando lo sguardo su Gesù che passava, [Giovanni il Battista] disse: “Ecco l’agnello di Dio!”. E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: “Che cosa cercate?”. Gli risposero: “Rabbì – che, tradotto, significa Maestro –, dove dimori?”. Disse loro: “Venite e vedrete”. Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio» (Gv 1,36-39). Nella ricerca del senso da dare alla propria vita, due discepoli del Battista si sentono rivolgere da Gesù la domanda penetrante: «Che cercate?». Alla loro replica «Rabbì (che significa maestro), dove abiti?», segue la risposta-invito del Signore: «Venite e vedrete» . Gesù li chiama al tempo stesso a un percorso interiore e a una disponibilità a mettersi concretamente in movimento, senza ben sapere dove questo li porterà. Sarà un incontro memorabile, tanto da ricordarne perfino l’ora (v. 39)”.

Sì, Fratelli e Sorelle, il punto di partenza del nostro anno pastorale è esattamente lo stesso dei primi discepoli: la vocazione e l’incontro con Gesù. Non un incontro qualsiasi, ma un incontro che fa scattare una vera conversione personale. Diceva Moehler, grande teologo tedesco: “Io penso che non potrei più vivere se non Lo sentissi più parlare”. Ricominciamo questo anno come i primi hanno cominciato: rispondendo ad un invito, ad una chiamata, ad una vocazione. Un evento di conversione personale accade quando qualcuno, entrando in contatto con un’esperienza cristiana viva, ne è così colpito che inizia ad assumere da essa i criteri per vivere e per pensare. Desidera imparare a giudicare e ad agire come giudica ed agisce la persona che ha incontrato; come pensa e come giudica Gesù. È una chiamata, un incontro, un ascolto che mette in discussione tutta la vita. Non diamo per scontata la nostra vocazione e la nostra conversione personale; riviviamola con libertà all’inizio del cammino di quest’anno. L’inizio è la sorpresa di un incontro che accade ora attraverso le facce di una persona, di una comunità, o della nostra Chiesa in cammino.
La vocazione infatti non è una fumosa adesione secondo le proprie capacità ed inclinazioni, ma è il frutto della volontà del Signore che chiama a sé chi vuole (cfr. Mc 3,13-19). Un dono certo che viene posto in noi al momento del Battesimo e che si ridesta come esperienza interessante nel nostro presente nell’incontro con una persona, un volto, un fatto, una circostanza. Così è accaduto con quanti hanno incontrato Padre Pio e sono cambiati, non erano più le stesse persone. Il Battesimo diventa così efficace nel presente e noi cominciamo a seguire con entusiasmo la chiamata del Signore. Non più quelli di prima, ma, anche se siamo ancora peccatori e limitati, chiamati alla vittoria sul peccato e sulla morte, chiamati alla vita.
In mezzo ai maestri del dubbio, dell’indecisione, della precarietà, rinnoviamo con forza le nostre promesse battesimali.

Per vivere a pieno il proprio Battesimo Dio ci chiama a servire nella sua Chiesa mediante la nostra vocazione specifica: la via del matrimonio, del sacerdozio, della speciale consacrazione. Non è per meri ideali che si sceglie di farsi carico degli altri, ma per un amore che cerca di somigliare concretamente a quello con il quale Cristo ha amato la sua Chiesa, ovvero dando la propria vita per lei. Durante quest’anno cominciamo ringraziando per la vocazione che abbiamo ricevuto e interroghiamoci nelle nostre comunità, su come la viviamo, come la coltiviamo e cosa ci aiuta a recuperare l’ardore del primo amore.
Noi siamo il popolo dei battezzati in Cristo Gesù! I battezzati formano un solo corpo, lo stesso corpo di Gesù che ne è il capo. Da questa metafora paolina non impareremo mai abbastanza, anzi dobbiamo cercare di assimilare ogni giorno il senso della vera della Chiesa.
La seconda parola che propongo quindi per il cammino pastorale di quest’anno è l’ appartenenza.

Appartenenza
Noi siamo di Cristo e della Chiesa. Il capitolo 15 di San Giovanni con l’immagine della vite e dei tralci offre una dottrina inequivocabile sul valore della nostra unità e comunione. Staccati dalla vite siamo legna (scadente) da ardere, non abbiamo in noi la linfa. Il rapporto della vite e dei tralci ha una dinamica profonda che spesso ci sfugge, ovvero che tutti siamo legati a Cristo per ricevere la linfa che ci fa vivere. “Senza di me non potete far niente” (Gv 15,5). Cosa possiamo dare se non quello che abbiamo ricevuto? Appartenere quindi significa vivere in comunione, sentire le gioie e le fatiche gli uni degli altri, prendersi cura delle membra della Chiesa più deboli, non sentirci né orfani né ospiti ma vivere da fratelli. Ma andando più al fondo della questione: se l Signore ci ha chiamati, ci ha tratti dal nulla, ci ha voluti, significa che, come dice il salmo “Egli ci ha fatti e noi siamo suoi, a Lui apparteniamo” (Sal 100, 3). Questo significa che quando dico “io”, il sentimento del mio io è che appartengo ad un Altro. La verità della nostra persona è l’appartenenza: noi apparteniamo. Anche con tutti i nostri limiti ed errori noi apparteniamo a Cristo. Chi incomincia a capire questo è una persona diversa, è libero non perché fa quello che vuole, ma perché appartiene. E una persona così stabilisce con gli altri rapporti diversi. Come un padre e una mamma con i loro figli: la loro vita è affermare l’essere e il bene dei figli. Che intensità deriva dal fatto di affermare che io appartengo a Cristo e non sono schiavo di nessuno. E appartengo al Signore attraverso il segno della sua presenza oggi: la Chiesa.

La nostra salvezza e la nostra verità nasce dall’appartenere alla Chiesa col battesimo, esercitando in essa il comandamento dell’amore, la Misericordia di Dio, qui noi laviamo i piedi gli uni agli altri. Apparteniamo al cenacolo, è nel cenacolo che si manifesta il Cristo e ci dona la sua pace. Fuori dal cenacolo è notte, dentro il cenacolo vi è il corpo di Cristo. Appartenere al cenacolo vuol dire imparare a servire più che ad essere serviti, imparare la lezione che chi vuole essere più grande deve farsi più piccolo.
Appartenere è amare la Chiesa, prendersi cura della propria comunità. San Giovanni Paolo II si rivolgerebbe a noi soprattutto a i giovani con queste parole: “Cari giovani, amate Cristo e amate la Chiesa! Amate Cristo come Egli vi ama. Amate la Chiesa come Cristo la ama!”

Amare la Chiesa vuol dire servirla e non servirsene, essa è il laboratorio perenne del Regno di Dio in mezzo agli uomini, che differisce da ogni esperienza ed aspirazione mondana. Conosciamo bene la tentazione di posporre il bene della Chiesa agli interessi personali peggio ancora ai personalismi, al compararla alla propria misura e non farla elevare alla statura di Cristo. Per questo chiedo, a partire dai sacerdoti, di servire la Chiesa solo per amore del Signore, di sviluppare una pastorale lungimirante e solida che non pensi di soddisfare i propri gusti e le proprie visioni ma che abbia a cuore il futuro delle prossime generazioni cristiane. Noi non apparteniamo a questo o quell’altro sacerdote, o questa o quell’altra parrocchia, noi apparteniamo, per mezzo del loro ministero non a loro, ma a Gesù! Ogni legame meramente umano autosufficiente che non si risolva nell’appartenenza a Cristo e nella Chiesa sarà fallimentare, inutile, imboccherà vicoli cechi.

Vorrei che sentiste gioia e responsabilità dell’appartenere al popolo della Chiesa: ascoltatori della voce viva del Cristo vivo, nel solco di una Tradizione millenaria di una ricchezza incomparabile, sale e luce in un mondo che cerca Dio, circondati da un nugolo di santi che ci sostiene in questo cammino, di una Chiesa che guarda a Pietro, papa Francesco, vicario di Cristo, e al proprio Vescovo che è qui per confermare la fede autentica del fondamento degli Apostoli. Non accontentiamoci di sacrestie asfittiche e degli orti sereni. Apparteniamo alla grande famiglia di Dio, alla famiglia dei Santi, sentiamo sulla nostra vita le grandi istanze della Chiesa, i grandi appelli della Giustizia e della Pace, la fame di Verità di un mondo che bussa alle nostre parrocchie per chiedere senso, siamo portavoce del grido dei poveri verso i grandi sordi della Terra. Apparteniamo perché non siamo lupi solitari, né battitori liberi, né uomini soli. Apparteniamo perché siamo stati creati e battezzati per la comunione!

La terza parola che indica la missione di quest’anno è la Testimonianza.

Testimonianza
Una persona che riconosce di appartenere al Signore vive da testimone. La testimonianza è lo scopo della nostra vita. Testimonianza, parola essenziale al nostro essere cristiani. Insita nel nostro battesimo come dicevamo, siamo al contempo battezzati e inviati ad annunciare, a cambiare il mondo circostante, a seminare la speranza. Cristo passa al cuore degli uomini attraverso la testimonianza di coloro che sono stati chiamati. Non c’è tregua per chi crede. «Guai a me se non evangelizzo!» (1Cor 9,16) ci ricorda sempre san Paolo. L’amore infatti del quale siamo destinatari ci spinge in avanti (cfr2 Cor 5,14), verso i fratelli. Si tratta della testimonianza come prima forma di fare missione. Si tratta della testimonianza personale e comunitaria. Quella personale consiste nel vivere ciò che ci riempie il cuore dove sono, nel lavoro a scuola, in famiglia, per le strade e nel comunicarlo con la mia vita. Così hanno fatto i nostri giovani nella missione estiva sulle spiagge della litoranea ionica. Ciò che è accaduto in quei giorni è ciò che accade e deve accadere ogni giorno dove siamo nella nostra vita quotidiana. Si compie così un passaggio dal sentimento della mia persona come amor proprio, come possesso, al sentimento di me come dono, come appartenenza, come testimonianza, anche quando questo comporta un sacrificio. Il sacrificio della missione e dell’amore al destino dell’altro. Così il Signore entra nel mondo anche attraverso la nostra personalità. E si realizza ciò che dice San Paolo: “L’amore del Cristo infatti ci possiede. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro” (2Cor 5, 14-15).
La testimonianza è anche comunitaria e pubblica. Dice un bellissimo testo di San Giovanni Crisostomo. “Sale della terra e luce del mondo. «Voi siete il sale della terra» (Mt 5, 13). Vi viene affidato il ministero della parola, dice il Cristo, non per voi, ma per il mondo intero. Non vi mando a due, o dieci, o venti città o a un popolo in particolare, come al tempo dei profeti, ma vi invio alla terra, al mare, al mondo intero, a questo mondo così corrotto. Dicendo infatti: «Voi siete il sale della terra», fa capire che l’uomo è snaturato e corrotto dai peccati. …. È opera di Cristo liberare gli uomini dalla corruzione del peccato, ma impedire di ricadere nel precedente stato di miseria spetta alla sollecitudine e agli sforzi degli apostoli. Perciò voglio che non vi limitiate a essere santi per voi stessi, ma che facciate gli altri simili a voi. Senza di ciò non basterete neppure a voi stessi”.
Non siamo fuori dalle problematiche di sempre anche se la Provvidenza non fa mancare i suoi segnali. In questi anni di appelli abbiamo sentito la fatica e il peso della nostra terra che ha bisogno di purificarsi di rinascere, di rinfrancarsi e sul setaccio le maglie sono sempre troppo grandi per gli uomini di buona volontà, ma il lavoro verso la consapevolezza del valore della salute, dell’ambiente, della dignità del lavoro non sono stati vani, e tante di quelle che sembravano idee nuove e rivoluzionarie ora fanno parte del vocabolario di tutti, segno di una condivisione indispensabile perché ogni cambiamento passa dal cambiamento delle coscienze. Il sentiero è tracciato. Rimane attuale e continuo il nostro impegno per la difesa dell’ambiente, ovvero di rispondere alla nostra primordiale vocazione di custodi del creato per garantire a noi e ai nostri discendenti il diritto alla salute. La nostra testimonianza, la nostra preghiera, la continua riflessione sulla Dottrina Sociale della Chiesa, devono essere una luce per frantumare il conflitto fra la salute e il lavoro. Auspichiamo anche che non si ritardino i tempi dell’applicazione del piano ambientale e che ci sia tutta la dovuta attenzione agli aspetti occupazionali. La Chiesa deve continuare la sua testimonianza anche per quello che definiamo bisogno di un lavoro degno, per indicare che senza il lavoro l’uomo va via via perdendo la sua dignità, rinunciando ad una fetta importante della sua realizzazione e della sua felicità. Continuiamo ad essere sollecitati in modo insistente da chi bussa alle porte d’Europa. Il problema mondiale dei migranti non può essere liquidato, né ignorato, né respinto, in tutta la sua emergenza e complessità, per questo come terzo sviluppo delle nostra testimonianza indico come luogo concreto di testimonianza l’accoglienza dei migranti.

Intanto ho la gioia di comunicarvi due date, il primo ottobre sarà pronto il centro Madre Teresa, ex monastero delle carmelitane. Un luogo specializzato nell’accoglienza dei migranti. Tema di grande attualità nazionale, l’accoglienza dei migranti non può essere ridotta ad una discussione da osteria né noi cattolici possiamo permetterci il lusso dei luoghi comuni che accozzano terrorismo, integralismo islamico, delinquenza e degrado. La nostra diocesi non rilancerà al mittente la sfida, con tutti i suoi rischi, di accogliere. Non vogliamo rinunciare, per imparare ad essere migliori, a storie come quella di Jima, che nell’ospedale Santissima Annunziata, tenendo la corona del rosario al collo, ha dato alla luce Confidence e lo ha battezzato insieme con suo marito Albert in Concattedrale nei mesi scorsi.
Altra data è il 19 novembre, data scelta da papa Francesco per celebrare la giornata internazionale per l’eliminazione della povertà. I questa data noi inaugureremo per i poveri della il centro di accoglienza per senza fissa dimora di Palazzo Santacroce, un’opera che ha richiesto tanti sacrifici e ancora ne richiederà perché la carità è un fuoco che dobbiamo sempre alimentare, e a partire dall’impiego del proprio tempo. Sono segni della Provvidenza, anche la testimonianza di una Chiesa viva e attenta. Il nostro amore concreto per i poveri renderà sempre più credibile la nostra testimonianza. Il cuore della testimonianza cristiana è costituito da forme concrete di misericordia e di perdono.

Cari fratelli e sorelle, ci troviamo ancora una volta nei luoghi del santo più amato in particolar modo da noi meridionali e mentre vi parlo della certezza, della concretezza, della solidità della vocazione, il mio sguardo è fisso sulle stigmate di Padre Pio, che sono un segno di quanto l’amore ci possa toccare, ferire, coinvolgere. Guardare e chiedere la grazia.
Padre Pio ci ha raccontato con la sua vita che la Passione di Gesù non è una favola, che quel sangue continua a grondare per amore. Così anche noi: non abbiamo paura del sacrificio. Affidiamoci a Cristo e alla Chiesa. Non si ricordano tanto le prediche del Padre Cappuccino e mentre la grande opera dell’ospedale si impone agli occhi di ciascuno di noi, rimane preminente sopra ogni cosa un contatto concreto di Dio con quest’uomo, con un uomo di preghiera, con un uomo di sacramenti, con uomo che ha saputo rinunciare a tutto, ma non alla sua appartenenza alla Chiesa, obbedendo e santificandosi nell’obbedienza.
San Pio prega per la Chiesa di Taranto, prega per me, prega per tutti i sacerdoti, i religiosi, gli ammalati e i giovani!
La Madonna della Salute, San Cataldo nostro patrono i santi tarantini Egidio e Francesco de Geronimo, benedicano il nostro anno pastorale e ce lo facciano cominciare con ardore e passione.
A tutti l’augurio di sperimentare che Dio ci ama veramente, non a parole. Con questa consapevolezza vogliamo tornare a casa: Dio ci ama e ne abbiamo le prove! Affidiamoci a Lui!
Buon anno pastorale a tutti!